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La cancel culture la pratichiamo un po’ tutti

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Questo post non è una discussione sulla cancel culture. Questo post parte dal presupposto che la cancel culture sia un problema, e prova a fare le pulci alle persone – come me – che la trovano pericolosa.

Non è, quindi, una discussione su cancel culture buona o cattiva. È una discussione interna a chi crede che sia una cosa cattiva. Premessa fatta, eccomi qui a fare – come al solito – un po’ di critica a chi la pensa come me, e in essa un po’ di autocritica.

Io penso che, tutti noi, adottiamo alcuni comportamenti che hanno la stessa radice dispotica e ostile al dialogo della cancel culture. Non si tratta, certo, di praticare violenza nei confronti di chi la pensa diversamente, o industriarsi per far perdere il lavoro a qualcuno per punirlo di non essere allineato.

Ma c’è una radice della stessa aggressività semplificatoria, dello stesso rifiuto della discussione pensata, in ciò che facciamo quotidianamente. E, anche, dello stesso meccanismo intimidatorio che non punta a convincere le persone, ma – appunto – a zittirle.

Tutto comincia con la delegittimazione, il rifiuto dell’interlocutore, l’attrazione sinuosa del deplatforming, del dire “quella persona, che ha quell’idea, non deve neanche essere ascoltata”.

Entriamo noi. Quante volte, in una discussione di persona od online, ci è capitato di pensare di qualcuno: «niente, discutere con te è inutile»? E quante volte abbiamo fatto il passo successivo, di dirlo o scriverlo di fronte ad altri (e con quale obiettivo? Di svergognare la persona? Di dire al mondo che stiamo smettendo? Cosa vale un “non vale la pena”?). A me è capitato tante volte, e certamente più spesso ora di qualche anno fa.

Naturalmente non si possono fare tutte le discussioni, non si può discutere con chiunque, delle volte davvero non-vale-la-pena. Ma lo riconoscete quello stesso concetto scivoloso? Quella resa all’impossibilità della crescita propria e altrui. Quanto tempo ci vuole per riconoscere che una persona non può contribuire a farci cambiare idea, e perciò a renderci un po’ migliori? Dieci messaggi? Cinque? Uno? In realtà non si può mai sapere, anche perché chi ha un’opinione diversa dalla nostra, inevitabilmente ci sembrerà in torto, e se ha un’opinione molto diversa dalla nostra ci sembrerà molto in torto, forse stupido, matto al massimo, uno con cui non-vale-la-pena discutere.

Il concetto chiave del più bello e significativo discorso sulla libertà di parola (ascoltatelo!) è che ogni volta che silenzi qualcuno ti stai privando della possibilità di ascoltare un parere che potrebbe insegnarti qualcosa. E anche se noi non cancellatori evitiamo di silenziare, ci priviamo spesso della possibilità di ascoltare.

È ovvio che non sto suggerendo di fare sempre ognuna delle discussioni che ci capitano, in realtà non lo so bene cosa sto suggerendo. Una regola aurea, un when to engage che valga per tutte le circostanze, non ce l’ho; e ce l’avessi l’avrei violata io per primo mille volte.

Un celebre non cancellatore

Però in questi giorni ho visto diversi amici miei, di quelli che hanno il “ma figurati se mi metto a discutere con te” sempre pronto, esecrare la cancel culture, in ogni sua forma; rivendicare che il dialogo, la discussione, sono l’unico modo per progredire. Che se le idee sbagliate fanno così paura, vuol dire che – dentro – non le si pensa così poco persuasive.

Perché non dimostrare che un’opinione è debole usando opinioni più solide? Del resto, se si pensa di avere buone ragioni per sostenere la propria idea quale sarebbe il problema?

E invece lo facciamo anche noi, ogni giorno. Rinunciamo a vedere l’altra persona come un fine; decidiamo di non ascoltare in quanto arbitri. che sono però inevitabilmente parziali. Ogni volta che rifiutiamo o abbandoniamo una discussione stiamo danneggiando noi e i nostri interlocutori.

In fondo questo desiderio di zittire i nostri “avversarî”, di affermare ciò che si pensa con la forza (la forza dell’impedire l’opinione altrui anziché con la forza della propria idea) è estremamente umano. Come lo è l’odio per le spiegazioni e la complessità, il disaccordo e la fatica di capire, in generale per gli argomenti che non sono i proprî. E lo è, forse ancora di più, la stessa confusione fra sostenere un’opinione e sostenere il diritto di esprimere un’opinione. Sono tutti tratti di quella tendenza dispotica molto umana che abbiamo tutti, e dalla quale – perciò – tutti dobbiamo guardarci.

Forse vedere i nostri comportamenti riflessi e ingigantiti da un ideale smaccatamente intimidatorio ci farà ripensare anche a noi.


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